mercoledì 30 ottobre 2013

Ottobre: quando il tramonto fa sognare

Sappiamo tutti quanto l'autunno sia la stagione dei tramonti più belli. 
Per un particolare fenomeno di rifrazione della luce, infatti, il cielo a volte si colora di tinte vivissime quasi fosse infuocato, offrendoci uno degli spettacoli più grandiosi che la natura ci possa regalare.

Ed è proprio di un tramonto che oggi desidero parlare, attraverso una delle più affascinanti creazioni di Claude Monet (1840 - 1926) intitolata "San Giorgio Maggiore al crepuscolo", olio su tela realizzato dall'artista nel 1908 durante un soggiorno a Venezia e conservato al National Museum of Wales di Cardiff. 
Si tratta di un'opera di straordinario splendore che figura - fra l'altro - tra i capolavori esposti alla mostra "Verso Monet" apertasi a Verona lo scorso 26 ottobre e dedicata alla rappresentazione del paesaggio dal Seicento in poi.

Il dipinto ci presenta una gemmazione di colori che sembra nascere dalla linea sfumata dell'orizzonte, dal tramonto che rifrange la sua luce in ogni direzione, illuminando la laguna e l'isola di San Giorgio. 
E' un fuoco che via via si schiarisce andando a confondersi col blu del cielo, mentre il riflesso dell'acqua ne irradia e moltiplica l'effetto avvicinandolo progressivamente al nostro sguardo. Un incendio di breve durata, come ogni tramonto, nel quale però l'artista ha colto l'istante di massimo splendore tanto che, più ci si addentra, più si ha l'impressione di venirne abbagliati e pervasi fino a scoprire di essere fatti solo di colore.

Ricordo una sensazione provata parecchi anni fa da una nave mentre, proprio nell'ora del crepuscolo, si staccava dalle coste della Grecia.
Avevo sentito parlare di località famose per i tramonti viola, ma farne esperienza era stato sorprendente. A un tratto, cielo, mare, costa, tutto per pochi attimi si era tinto di quella luce al punto che mi pareva di esservi immersa, di respirarla.
Ed è la stessa sensazione - almeno così a me sembra - che offre il dipinto di Monet, nonostante qui i colori siano più vari e più accesi.

Ma la maestria del pittore ci parla anche attraverso altri particolari come quel campanile che la laguna riflette e, col suo dondolìo, spezza in dolci armoniosi frammenti, segno della raffinatissima abilità con cui Monet ha sempre rappresentato l'acqua, evidente in questa come in numerose altre opere. 

Così pure, se la basilica di San Giorgio si staglia scura con contorni non nitidi e tuttavia ancora ben riconoscibili, nella parte destra del quadro invece l'ombra di alcune cupole emerge da un indistinto magma di colori, effetto che per certi versi ci rimanda a Turner, ma per altri prelude già all'astrattismo.
Ed è la pennellata larga, densa, quasi materica ad accentuare questa sensazione, insieme al colore inframmezzato da piccoli tocchi di bianco - tecnica usata anche dai divisionisti - perchè tutto si risolva in vibrazioni luminose.
Ma viene anche da pensare che nessun soggetto pittorico meglio di Venezia - col fascino della sua precarietà, col suo essere già per se stessa un miracolo di luce sospeso sull'acqua - possa adattarsi ad una rappresentazione impressionistica volta proprio a cogliere l'irrepetibile percezione di un attimo.

E a proposito di percezione, mi ha molto colpito sapere che, quando Monet ha dipinto quest'opera, già iniziava a soffrire di quella cataratta che gli sarebbe stata diagnosticata poco tempo dopo.
Non conosciamo in realtà fino a che punto il problema abbia influenzato davvero la sua visione. Recenti studi degli scienziati dell'università di Stanford ritengono che il suo impressionismo derivi proprio dalla visione sfocata dovuta al suo difetto di vista, mentre altri studiosi smentiscono categoricamente questa ipotesi. 

Ma se anche fosse, sarebbe mirabile l'effetto che la malattia avrebbe creato modificando la capacità visiva. E mi fa pensare a quanto le nostre fragilità, lungi dall'essere limiti tassativi e invalicabili, mutando la nostra percezione possano aprirla a nuovi spessori, nuove sensibilità, mostrando talora quel rovescio della tela rivelatore di più profonde e affascinanti trame.

Così, mi sembra bello affiancare a questo dipinto l'ascolto di un brano altrettanto denso di sfumature e di grande suggestione: il quarto movimento, "Larghetto", dalla "Serenata per archi in Mi maggiore op.22" di Antonin Dvorak (1841 - 1904).
Si tratta di un pezzo che amo molto per la sua capacità di evocare un'atmosfera di nostalgica malinconia come può essere quella del crepuscolo, e al tempo stesso per le sue intense e luminose aperture soprattutto là dove prevalgono le tonalità maggiori. 
Appassionato ed intimo il canto degli archi, e così pure dolcemente ritmata e sognante la melodia che ci accompagna.
E mi pare che le note ci aiutino ad addentrarci sia nella luce sfolgorante del dipinto, che in quegli sfumati dove la linea indistinta dell'orizzonte ci riporta al mistero e al fascino di Venezia come di ogni cosa creata.

Buon ascolto! 

mercoledì 23 ottobre 2013

Come un rivolo d'acqua

Passano i giorni, ma è mi impossibile non ritornare ancora una volta sulle note di Rachmaninov; del resto avevo già anticipato che ne avrei condiviso altri brani.

Così, oggi è la volta del "Preludio in sol diesis minore n.12 op.32", una creazione per pianoforte in cui, a cominciare dagli arpeggi iniziali, sembra che il compositore abbia tradotto la sua romantica vena di malinconia in una serie di mirabili giochi d'acqua. 
Il pezzo alterna infatti passaggi di grande impeto ad altri decisamente più dolci: note ora simili a un mare dalle onde travolgenti e impetuose, ora a un piccolo ruscello, a una cascatella di gocce melodiose, quasi un "rivo canoro" di pascoliana memoria.

Confesso che ho impiegato parecchio tempo a scegliere - tra le clip audio offerte da youtube - l'esecuzione a mio avviso più soddisfacente. 
Ascoltando musica, è frequente imbattersi in interpretazioni talora anche molto differenti. C'è quella più rigorosa e attenta alle varie indicazioni di dinamica, o più vicina alle intenzioni del compositore e capace di rispecchiare maggiormente il clima in cui il brano è nato; o quella che ne sviluppa ogni possibilità ritmica o melodica e via dicendo.
Ma.....qual è la migliore???

Il discorso è piuttosto delicato perchè ognuno dei criteri sopracitati è perfetto e imperfetto ad un tempo.
Tutti lo sappiamo e lo affermava anche il grande musicologo Roman Vlad: "la musica rinasce ad ogni interpretazione", tant'è vero che ogni replica di un concerto non è mai in tutto uguale alla precedente. Su di essa incidono infatti elementi che vanno dallo stato d'animo dell'esecutore, al luogo, alle caratteristiche degli strumenti usati, alla loro accordatura e via dicendo.
Ma importante anche il livello di empatia del pubblico perchè nel creare un'emozione, insieme all'anima dell'autore e a quella dell'interprete, non è meno significativo il cuore di chi ascolta mettendo in gioco la propria ricettività. 
Un incontro di anime dunque, in cui - soprattutto nelle esecuzioni live - una si riverbera, per così dire, sull'altra.
 
Allora, se il linguaggio musicale ci coinvolge così profondamente, il nucleo segreto della perfetta interpretazione sarà proprio dentro di noi che ascoltiamo, e sarà quello che, di momento in momento, corrisponderà più intensamente alla nostra pulsazione interiore.
La musica infatti sveglia in noi quella segreta armonia dalla quale ciascuno è intriso e che forse, solitamente, riusciamo a intuire solo a tratti, per sprazzi di luce, quasi fosse un lontano ricordo. E - come accade per ogni forma d'arte - essa evoca sentimenti e percezioni che talora abbiamo dentro ancora indistinti e ai quali le note, come onde che affiorano dalla profondità di un mare segreto, consentono di emergere dando loro forma e facendoli essere. 

Tutto questo discorsino per dire che, nella mia scelta del preludio di Rachmaninov, tra le tante interpretazioni di svariati pianisti di più celebrata fama (Horowitz, Lisitsa, Ashkenazy...), ho preferito quella del russo Boris Berezovsky - che, a dire il vero, non conoscevo - con la quale mi sono sentita in particolare sintonia.
Non è solo la perizia tecnica infatti o la sonorità degli arpeggi a colpirmi, ma la morbidezza di tocco, la particolare fluidità che conferisce al pezzo diverse sfumature di colore creando la suggestione di un sottofondo di acqua che scorre.
E trovo affascinante soprattutto la parte finale perchè qui - a differenza di altri interpreti - il pianista smussa qualunque angolosità del testo musicale imprimendo alla melodia un ritmo interrotto da lievissime pause, un dolce e quasi impercettibile rallentare simile a una timida carezza o a un passo che, a tratti, si faccia più esitante e poi riprenda. 
O simile a un rivolo d'acqua nel quale sentiamo il canto delle singole gocce, una per una, con misura e delicatezza infinita.

Buon ascolto!

La musica rinasce ad ogni interpretazione, è una epifania perpetua in cui assume un ruolo fondamentale la capacità di interpretazione del testo musicale. - See more at: http://tao.oato.it/esperienza/95-linterpretazione-e-lemozione#sthash.STwhCZUD.dpuf
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La musica rinasce ad ogni interpretazione, è una epifania perpetua in cui assume un ruolo fondamentale la capacità di interpretazione del testo musicale. - See more at: http://tao.oato.it/esperienza/95-linterpretazione-e-lemozione#sthash.STwhCZUD.dpufBuon ascolto!   
La musica rinasce ad ogni interpretazione, è una epifania perpetua in cui assume un ruolo fondamentale la capacità di interpretazione del testo musicale. - See more at: http://tao.oato.it/esperienza/95-linterpretazione-e-lemozione#sthash.STwhCZUD.dpuf

martedì 15 ottobre 2013

Emozioni

"Entrano grandi. 
 Escono immortali." 
Così recita il manifesto che nei giorni scorsi pubblicizzava la stagione 2013/2014 del Teatro alla Scala di Milano e penso che non ci siano parole più vere e appropriate per descrivere la parabola artistica ed esistenziale di chi l'ha reso così celebre.

E' stata infatti la sensazione di entrare in contatto con una grandezza che non muore quella che ho provato giovedì 10 ottobre, quando il teatro ha aperto i suoi battenti a chiunque volesse visitarlo. Una splendida occasione che mi ha consentito di accedervi liberamente in coincidenza col bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi (1813 - 1901) e all'interno del complesso di celebrazioni verdiane di questo periodo.

Ho vissuto così un momento di profonda emozione, in un luogo capace di toccare il cuore di ogni persona superando tempi e mode, perchè più che mai abitato dall'anima di chi lo ha reso grande.
Un luogo che ha assorbito l'incanto della musica a tal punto che la passione di chi le ha dato vita sembra esservisi materializzata per magìa.
Questo è ciò che ho percepito aggirandomi prima nel foyer, poi affacciandomi dai vari palchi a contemplare lo spettacolo del teatro stesso, a scattare furtivamente una foto (ma rigorosamente senza flash!), mentre dallo schermo allestito nel ridotto si diffondevano immagini e note delle più prestigiose esecuzioni della Messa da Requiem di Verdi.

Certo, alla Scala ero già stata in altre occasioni e assistere ad un'opera o ad un concerto è un'esperienza indubbiamente più ricca che consente di vivere in pienezza tutto il fascino del teatro.
La prima volta ero andata con la scuola a vedere il "Faust" di Gounod. 
Avevo sedici anni, l'abitino elegante delle grandi occasioni e gli occhi sgranati dalla sorpresa mentre, da un palco vicino all'orchestra, seguivo la direzione appassionata di Georges Pretre e un'incantevole Mirella Freni nel ruolo di Margherita.
Ma anche giovedì scorso - nonostante l'ambiente non mi fosse nuovo - non riuscivo a non provare stupore in mezzo a tanta altra gente, tanti altri volti sui quali leggevo riflessa la mia stessa gioia.
Era l'emozione di potersi aggirare tra i palchi come tra le stanze di casa propria, di riconoscere all'interno del museo i ritratti di musicisti e interpreti - Verdi, Donizetti, Puccini e poi Toscanini, la Callas, la Tebaldi.... - come fossero immagini di famiglia, di parenti neppure troppo lontani ai quali la musica ci aveva legato in modo indissolubile rendendoli ormai nostri. 

O forse ero io che non riuscivo a non sorridere, tanto mi sentivo ricolmata di commozione osservando ogni oggetto e ogni arredo cui mi pareva che la musica avesse conferito una sorta di sacralità. Dall'antica spinetta che porta dipinta la scritta ammonitrice: "Indocta manus, noli me tangere!" al pianoforte di Liszt o ai dipinti che celebrano Giuseppe Verdi, colui che - come scrisse mirabilmente il D'Annunzio - "pianse ed amò per tutti".

E di Verdi, appunto, desidero condividere qui un brano della "Messa da Requiem" : il potentissimo "Rex tremendae majestatis", in un allestimento che vede sul palcoscenico dei protagonisti d'eccezione proprio dal Teatro alla Scala.
E se essa è un luogo il cui solo nome è una consacrazione di grandezza per gli artisti che vi sono entrati e per coloro che ancora vi entreranno, a sua volta è divenuta grande proprio grazie ad essi e a quanti nel tempo hanno offerto e offrono al mondo un contributo di appassionato amore per la musica.
Un amore capace di regalarci anche in una battuta di poche note lo splendore dell'universo intero.
Un amore che si trasmette come un vivissimo DNA, da anima a anima, a tutti noi.

Buon ascolto! 

mercoledì 9 ottobre 2013

Sconfinati orizzonti


Musicalmente parlando, non faccio quasi mai programmi precisi nell'accostarmi ai vari compositori, nè procedo con particolare ordine o sistematicità nelle mie scelte, ma seguo un po' la mia passione o le circostanze del momento come penso sia per tanti di noi. 
Ci sono periodi in cui viviamo dello splendore di un brano sentito magari per caso, che ci ha catturato con la sua suggestione, e può capitare che ci si svegli al mattino con dentro quella musica che ci accompagnerà per l'intera giornata. 
Ma possono essere anche ricordi, eventi o luoghi ad evocare una melodia dalla quale poi non riusciremo a staccarci e che s'intreccerà saldamente al nostro cuore e ai nostri pensieri fino a sovrastarli.  

Nei mesi scorsi, per me è stato il turno di Rachmaninov: prima i concerti per pianoforte - il terzo in particolare - poi alcuni preludi, la splendida elegia in mi bemolle minore e altro ancora che posterò prossimamente.
Ma negli ultimi giorni sono passata a Philip Glass che, dopo avermi suscitato qualche iniziale perplessità, ora mi sta affascinando non poco.
Sono sempre i ripetuti ascolti che mi aiutano a scoprire la bellezza di un autore e ciò mi sta accadendo in modo particolare anche per questo compositore statunitense, classe 1937, del quale ho già pubblicato tempo fa "Morning passages" che potete ritrovare qui

Così di Glass oggi vi propongo "The Hours", sempre dalla colonna sonora del film omonimo. 
Si tratta di un brano denso di ombre angosciose che non solo si addice bene all'argomento fortemente drammatico della pellicola, ma che - come ogni creazione scaturita dal profondo - si libera poi dal contesto per cui è nato brillando di luce propria e conducendo l'ascoltatore verso atmosfere ricche di svariate suggestioni.

E' un filo di costante inquietudine quello che percorre il pezzo fin dalle prime battute, ma sono le continue ripetizioni sia degli accordi che degli arpeggi a costituirne l'ossatura. E se le prime volte - lo confesso - mi erano parse eccessive, ora sono proprio quelle che m'innamorano perchè si fanno interpreti di un clima e del sapore di una contemporaneità nella quale il compositore s'inoltra in modo sempre più intenso e vibrante. 
Gli accenti delicati ma via via più drammatici e martellanti del pianoforte sono infatti accompagnati dall'orchestra che ne sottolinea per così dire il respiro, segnandone il ritmo ansioso in un'atmosfera di crescente sospensione.
  
Splendido anche il video del quale ringrazio l'autore che l'ha condiviso su youtube: immagini di vita in un suggestivo ed efficacissimo bianco e nero che mi pare si accordino in maniera straordinaria al tono della musica mettendone in rilievo l'attualità.
Squarci di solitudine metropolitana, scatti di quotidianità che si fanno poesia ora nell'ombra cupa di un tunnel, ora nel grigiore del cielo o di un'autostrada, e poi danze, baci, sguardi, musica. Ma anche paesaggi aperti, orizzonti sconfinati, nebbie, attese e il mare, aperto e infinito, tema ricorrente del video così come tema ricorrente del brano è il ripetuto e talora ombroso arpeggiare.
Glass sembra infatti addentrarsi con onde sempre più profonde e inquiete proprio nella solitudine dell'uomo contemporaneo e farla propria con le sue note che si caricano di progressivo sgomento. 
Così, dai bassi intensamente marcati della seconda parte del pezzo ai passaggi più leggeri del pianoforte soffusi di malinconica dolcezza, ci apre a prospettive nuove, segnate talora da un ansito angoscioso verso l'ignoto, talaltra da luminose percezioni d'infinito.
E se ci lasciamo raggiungere da questa musica che sembra fondere splendore e dramma, ci ritroviamo ad essere tutti viandanti in attesa, davanti allo spessore sconfinato e misterioso del tempo.

Buona visione e buon ascolto! 
(nel riquadro, "La partenza del poeta" di Giorgio De Chirico)