martedì 24 febbraio 2015

Percussioni

Sappiamo tutti quanto all'interno di un organico orchestrale - che si tratti di un ensemble classico o meno - ogni singolo strumento abbia un ruolo preciso e il risultato complessivo derivi dalla coesione e dall'incastro armonioso di tutte le differenti voci, ciascuna assolutamente necessaria alla fedele esecuzione della partitura.

Come già scrivevo in passato, è il fare la propria parte all'interno di un organismo diversificato e complesso che crea la bellezza del risultato. 
Sotto questo aspetto - se si eccettua il solista al quale è sempre affidato un ruolo di primo piano - non è possibile stabilire una graduatoria tra strumenti più o meno importanti: dipenderà di volta in volta dal brano, dalla partitura e dal tipo d'interpretazione. Ma la costruzione sarà sempre frutto di un lavoro comune in cui, a condurre una melodia, a dare spessore a un tema, a farne risuonare ogni minima sfumatura, saranno coivolti tutti gli strumenti, dagli archi ai legni, dagli ottoni alle percussioni.

Le percussioni, appunto.
Non si pensi che siano di secondaria importanza perchè - all'interno di un'orchestra sinfonica - capita che il loro intervento sia meno frequente rispetto, per esempio, ad una banda o a un gruppo jazz. 
Per quanto sia stata l'età contemporanea ad esaltarne l'uso con il rock, con la musica d'ispirazione africana e latino-americana, oltre a varie sperimentazioni, il ruolo delle percussioni è ugualmente rilevante anche all'interno di numerosi brani di classica. Anche qui infatti, dai timpani al triangolo, dai piatti al glockenspiel, la loro presenza offre un panorama variegato di suoni e di timbri. Sono infatti grancasse, marimbe, maracas, campane, tamburelli, xilofoni e via dicendo, con il loro suono scintillante e fragoroso, o dolce e delicato, a dare di volta in volta all'esecuzione ritmo, potenza, drammaticità, energia o delicatezza, creando un clima ora cupo e ombroso, ora decisamente brillante.

E non va trascurata neppure la posizione delle percussioni all'interno del complesso orchestrale che le vede sul fondo, certo, ma in qualche modo capaci di dominare l'intero insieme degli strumenti.
Ed esattamente come gli altri strumenti, il loro impiego è versatile: consideriamo, ad esempio, come un rullo di tamburi possa essere modulato diversamente per accompagnare un pezzo di irrefrenabile vitalità o ritmare sommesso e cadenzato una marcia funebre, per sottolineare un'esplosione di danze o annunciare un dramma.
Oppure pensiamo all'uso dei timpani esaltato da Haydn nella "Sinfonia n.103", o da Beethoven nello "Scherzo" della "Nona sinfonia"; alla grancassa all'inizio del "Così parlò Zarathustra" di Richard Strauss, ma anche alle varie percussioni usate da Tchaikovsky nel "Capriccio italiano" o nello "Schiaccianoci", solo per citare qualche brano. 
E come non ricordare poi il famosissimo "Bolero" di Ravel, accompagnato per l'intero suo svolgimento dal tamburo che ne scandisce il ritmo prima in modo sommesso e poi in un crescendo sempre più deciso? O la "Musica per archi, percussione e celesta" di Bartok? O la "Sinfonia n.4" di Mahler che esordisce addirittura con dei sonagli?
Ma gli esempi potrebbero continuare.

Allora, per restare in tema, oggi vi propongo un famoso brano di Camille Saint-Saens (1835 - 1921): il "Bacchanale" dal "Sansone e Dalila".
Si tratta di un tipo di composizione ispirato a feste e riti orgiastici dai toni sempre fortemente accesi. Qui si snoda vivacissimo, scorrevole e ritmato come una danza per tutta la parte iniziale, ricca di raffinatezza e di sonorità orientaleggianti. Al suo interno si apre poi una melodia più lenta e morbida, dai toni quasi romantici che lascia infine spazio al tema precedente per riproporlo in un prorompente e quasi parossistico crescendo ritmico.
E nel corso di tutto il brano, si può cogliere la presenza di varie percussioni che si alternano nel conferire alla musica delicatezza o energia, fino alla conclusione totalmente dominata e scandita dalla loro potenza.
Affascinante e come sempre appassionata la direzione di James Levine, fatta di gesti ora misurati, ora fortemente espressivi che il video ci offre in un incantevole live parigino.

Buon ascolto e buona visione!

mercoledì 18 febbraio 2015

Nidi sugli alberi

Sono in treno e guardo dal finestrino la campagna dai toni invernali dove la neve si sta ormai sciogliendo.
Mi capita spesso di viaggiare da sola e trovo rilassante starmene seduta in silenzio, con gli occhi al paesaggio in fuga mentre il treno prosegue la sua corsa. 
Sono momenti di tranquillità in cui mi piace osservare il panorama sempre diverso e riposare la mente, lasciando vagare i pensieri e consentendo alle varie suggestioni di affiorare indisturbate.

A volte, la mattina è nebbiosa e allora i paesetti circostanti sembrano dissolversi nella foschia invernale; in questi giorni, invece, la campagna e i tetti delle cascine ancora spruzzati di neve rendono il panorama più luminoso. Ma sempre, qualunque vista mi si offra, amo queste piccole occasioni di silenzio che mi consentono di rientrare in me stessa.
Oggi è uscito un timido sole e sprazzi di azzurro si alternano al biancore dell'ultima neve.
Dal treno si vedono campi brulli, filari spogli, nidi sugli alberi, case, persone che passano in strada, gesti un attimo colti e poi perduti, esistenze che s'intrecciano per brevi istanti e poi si lasciano, come gocce che rigano un vetro bagnato di pioggia.

Guardar fuori è abbandonarsi a questa contemplazione, lasciando che la vita ci porti con sè senza che le opponiamo resistenza.
C'è un segreto in ciò che vediamo? Nei cieli spazzati dal vento o nella calura estiva, nell'acqua torrenziale o nel gelo? Nell'alternarsi delle stagioni, nel tempo che scorre col sapore e l'ebbrezza del non ancora vissuto, c'è uno spessore, un rimando, un nascosto richiamo?
E quei nidi sugli alberi spogli, così visibili ora che è inverno, sentiranno freddo?
Li osservo un attimo dal treno in corsa, così come sono, esposti e protetti ad un tempo: esposti al sole e alla grandine, alla brezza e al temporale, in precario equilibrio eppure protetti da un sapiente intreccio di rami, da una forcella del tronco che, come il cavo di una mano, li accoglie e sorregge sicura.
Anche noi, a ben pensare, siamo come quei nidi: esposti ai cieli tersi e alle intemperie, al vento che mozza il respiro o alla rugiada che ristora e fa rifiorire. E noi pure sostenuti da una mano talora invisibile, che tuttavia ci parla nel segreto intreccio di amicizie e relazioni capaci di scaldarci l'anima.
Sotto la pioggia o i raggi del sole, in giorni velati da grigia foschia o in altri in cui lo sguardo spazia fino al lontano orizzonte, siamo tutti portati dal fiume del tempo, talora travolti, ma sempre condotti a percepirne il mistero. 

Ed è la musica per me - come ormai ben sapete - il canale privilegiato che mi consente di affinare questa percezione. Così oggi, per accompagnare il mio viaggio, ho scelto un brano che mi sembra creare una profonda sintonia con la campagna che fugge là fuori dal finestrino e i miei pensieri.
Si tratta di "Vocalise", ultima delle quattordici "Romanze op.34" di Sergej Rachmaninov: un canto senza parole che - composto originariamente per voce solista e pianoforte - ha subìto poi svariati arrangiamenti per orchestra o per singoli strumenti. Ve lo propongo qui nella trascrizione per pianoforte solo che mi è parsa molto suggestiva.

E' una melodia malinconica, eppure non priva di aperture di vibrante luminosità, che alterna passaggi dall'andamento pacato ad altri in cui si carica di crescente energia. Ed è straordinaria - a mio avviso - la sua capacità di comunicarci, con intensità struggente, la percezione del tempo che passa insieme al soffio di una speranza che ci apre al nuovo. 
Vi si può ritrovare talora l'eco di Chopin, in particolare del "Preludio in mi minore op.28 n.4", richiamo del resto non nuovo in Rachmaninov che ha composto - tra l'altro - le "Variazioni su di un tema di Chopin op.22" prendendo spunto dal "Preludio in do minore op.28 n.20".
Ma "Vocalise" col suo marcato romanticismo ha avuto immensa fortuna anche nel tempo. Lo avrà forse avuto in mente Francis Lai nel comporre il famosissimo tema del film "Love story" ? Ascoltando l'esordio, a me pare di sì.

A parte questo, come tanta musica di Rachmaninov, il brano nella sua passionalità ora delicata, ora più tempestosa, ci porta lontano come una nave che leva gli ormeggi e prende il largo. Ma ci conduce anche in un percorso meditativo attraverso i tratti di un paesaggio interiore: ce lo suggeriscono gli accordi più incisivi e profondi e - quasi sul finire - la ripresa del tema in una dolce cascata di arpeggi.
Una melodia che ci aiuta ad affinare lo sguardo e a lasciarci pervadere dalla segreta dolcezza di un prato, mentre si scioglie la neve, in un mattino di timido sole.

Buon ascolto!

martedì 10 febbraio 2015

Ginestre nel cuore dell'inverno

Febbraio è già iniziato da più di una settimana, ma non ho ancora aggiornato il calendario di casa, piccolo rituale che - puntualmente - compio all'inizio di ogni mese, nell'angolo della mia cucina che s'illumina di sole di primo mattino.

Ma non si tratta di una dimenticanza. 
Il fatto è che non riesco a staccarmi dall'immagine che mi ha accompagnato finora in questo esordio d'anno, rischiarandomi lo sguardo ogni volta che vi passo davanti. 
Contrariamente alle mie abitudini che - come scrivevo in passato - mi hanno sempre indotto a scegliere un calendario illustrato da panorami toscani, quest'anno è stato quello della Provenza ad attirarmi con vedute e colori. 
Il tempo vi è scandito da immagini molto luminose: il viola dei campi di lavanda vicino all'abbazia di Sénanque, cesti colmi di frutta variopinta, casolari di pietra nel mezzo della campagna talora innevata e così via.

Anche qui da me i campi sono imbiancati di neve, ma il paesaggio provenzale del mese di gennaio - sì, proprio quello che vedete! - stranamente mi regala cielo blu e ginestre, insieme alle pale ariose di un mulino a vento: un'immagine di splendore mediterraneo dove si vive un anticipo di primavera.
Volendo, è piacevole anche febbraio che rappresenta un uliveto nel periodo della raccolta; tuttavia lì non si vede il cielo e non ne deriva lo stesso respiro. Così ho fermato il tempo al mese scorso.
Qui infatti è proprio il giallo in primo piano, è il contrasto tra il blu intenso e la pietra chiara del mulino ad offrirmi una prepotente ed energica sensazione di vita. E quelle ginestre nel cuore dell'inverno - fiori umili e poveri in fondo, fiori del deserto come ricorda il Leopardi - quando l'occhio si posa fuggevole su di loro, sanno regalarci una suggestione che resta dentro simile all'eco di un sogno luminoso, mentre magari i pensieri correvano a tutt'altro.

E questa strana stagione che, mentre in certe zone porta neve in quantità, in altre già volge a primavera, mi fa pensare alla mutevolezza e alla luminosità di alcuni brani di Frédérick Chopin, ariosi e animati, per un momento tempestosi e poi dolcissimi. Così oggi, del compositore polacco vi propongo lo "Studio in La bemolle maggiore op.10 n.10".
Uno Studio - lo dice la parola stessa - è originato da finalità didattiche e consente al pianista di impadronirsi di figurazioni particolarmente difficili, ora ripetute, ora arricchite da varianti, ora trasposte in altre tonalità così da permettere l'uso di tutta una serie di tattiche nella diteggiatura e nell'esercizio della mano. Tuttavia non si tratta solo di tecnica, ma - come accade anche per diversi altri autori - un afflato poetico insieme a una vivace inventiva percorre quasi sempre questi brani.

In Chopin appena ventenne, l'intenzione nel comporre gli Studi era proprio quella di fondere virtuosismo - pensiamo a Liszt e a Paganini, che sotto questo profilo a quel tempo riscuotevano già consensi - ed espressività, tecnica e arte. Ne derivano quindi pezzi brevi, ma di ricchissima varietà, simili a sprazzi di luce che spalancano al nostro sguardo improvvisi angoli di meraviglia.
Qui, il brano si snoda come un moto perpetuo in un costante vibrare di note e di arpeggi che sembrano squillare come i colori vivi della foto, in taluni passaggi simili ad ali di farfalla lievi e inafferrabili, ma altrove segnati da un ritmo sempre più irruente e acceso. 
Un brano che dà spazio alla fantasia come l'immagine del mio calendario che, offrendoci un piccolo luminoso scorcio, ci consente di sognare la visione d'insieme.

Buon ascolto!

 

lunedì 2 febbraio 2015

Dedicato a Samantha

Nonostante il passare dei mesi - se non ormai degli anni - devo riconoscere che mantenere in vita questo blog non mi ha ancora creato particolari crisi di stanchezza o di noia nel momento in cui mi appresto a scrivere un nuovo post. 
Ciò accade di certo grazie a voi che mi seguite condividendo con me il piacere dell'ascolto, ma naturalmente anche grazie alla musica che, con la sua ricchezza di vita e varietà di emozioni, mi regala costantemente entusiasmo mantenendo desto in me l'interesse.

Ma l'aspetto più coinvolgente del mio vagare nell'infinito universo musicale non è solo la possibilità di rinverdire le mie antiche passioni, ma anche l'occasione di avvicinarmi nel tempo a compositori per me sconosciuti, di fare confronti, di modificare talora i miei gusti lasciando affiorare in me emozioni nuove. 
In una parola: imparare! 
Imparare a conoscere altra musica certo, ma anche me stessa, se è vero che la nostra vulnerabilità e le nostre reazioni rispetto ad essa talora la dicono lunga su ciò che ci portiamo dentro.

Per questo, oggi torno a Edward Elgar (1857 - 1934) - proprio una delle mie passioni più recenti - per regalarvi un brano che ho scoperto solo pochi giorni fa, ma che mi ha subito affascinato per la sua atmosfera.
Si tratta di "Nimrod", la nona tra le quattordici variazioni su di un tema scritte dal compositore inglese sul finire dell'Ottocento, ciascuna dedicata a un familiare o a un amico e conosciute come "Enigma variation op.36".
Il pezzo qui riportato è un adagio sinfonico di notevole grandiosità che ci restituisce un clima tardo romantico. 
Le sonorità sfumate del brano e la sua intensità ci danno infatti la percezione di una realtà senza limiti, un universo dai margini sfrangiati, in espansione infinita. E credo che la suggestione di questo adagio derivi anche dalla presenza, nel suo tessuto musicale, di frequenti intervalli di settima discendente: note lontane tra loro che tendono a dar respiro e al tempo stesso solennità all'andamento musicale, insieme a un senso di crescente apertura a spazi sconfinati.

Si tratta di una musica che, talora, può generare quello sgomento che ci afferra di fronte all'ignoto; e tuttavia, insieme a questo, ci restituisce un profondo senso di grandiosità. 
E mi fa pensare al sogno di levarsi in volo, solcare i cieli ed esplorare gli spazi intorno al nostro pianeta, alla suggestione di poterlo contemplare dall'alto abbracciando con un solo sguardo oceani e catene montuose, il buio dei deserti e le metropoli dense di luci.
Si tratta di una realtà affascinante che tanti astronauti anche italiani ci hanno già regalato, da Franco Malerba fino a Luca Parmitano e in particolare a Samantha Cristoforetti che, in questi mesi, ci sorvola dall'alto comprendendoci tutti nella sua visione d'insieme.

E' proprio a lei che ho pensato ascoltando il brano di Elgar con tutta la sua suggestione d'infinito: chissà se la gioia della contemplazione del cosmo si sarà tradotta in note dentro il suo cuore! 
Leggo che tanta musica scandisce le varie fasi delle sue giornate così impegnative: dalle canzoni di Daniele Silvestri, dei Queen e di Pink che hanno accompagnato la giovane astronauta nella sua preparazione alla partenza, a quelle scelte tuttora per lei dal pubblico attraverso vari sondaggi.
Così oggi anch'io, da questo piccolo angolo del web, desidero dedicare il brano di Elgar proprio a Samantha cercando di immaginare, nella semplicità del suo sorriso e dei suoi occhi attenti, lo stupore di fronte all'immensità che  quotidianamente si dispiega sotto il suo sguardo e dal suo particolarissimo punto di vista.
Ma mi piace anche ricordare la sua risposta - alla vigilia del lancio - a chi le chiedeva di fomulare un augurio per il nostro pianeta:

"Auguro a tutti, ma soprattutto ai leader, di adottare ogni tanto una sorta di prospettiva orbitale come quella che avremo dalla Stazione Spaziale. Vedere tutto interconnesso, dovrebbe servire a prendere decisioni di cui beneficiano tutti."
Un auspicio che a me pare molto bello per ognuno di noi, in ogni angolo di mondo. 

Buon ascolto!